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26 agosto 2013

OPERAI "USA E GETTA" ?!?





































OPERAI... "USA E GETTA":


SE AVETE AVUTO LA PAZIENZA E... IL TEMPO PER LEGGERE IL POST PRECEDENTE ( SUI LAVORI IN QUOTA )...
CONTINUO CON LE SITUAZIONI CHE SI CREANO QUANDO IL LAVORATORE RIENTRA AL LAVORO DOPO UN INFORTUNIO,
NESSUN DATORE DI LAVORO VERRA' A SCUSARSI PER IL DANNO CAGIONATO, E SE SI INFORMERA' SULLA VOSTRA SALUTE... SARA' SOLO PER AVERE UN "ALIBI" PER POTERVI TRASFERIRE AD ALTRE MANSIONI... PEGGIORATIVE !!
POICHE' RITIENE DI NON ESSERE COLPEVOLE LUI...
COLPEVOLIZZERA' L'OPERAIO, COSI' INCAPACE DI LAVORARE SENZA FARSI MALE !!
VEDIAMO COSA DICE IN QUESTI CASI LA LEGGE ( anche se poi bisogna trovare chi vorra' e potra'  tutelarci e assisterci legalmente  in casi simili...) :

INIDONEITA’ E IDONEITA’: IL MANTENIMENTO DELLA MANSIONE E DEL POSTO DI LAVORO
Da: PuntoSicuro
http://www.puntosicuro.it
Un approfondimento relativo al tema della inidoneità o idoneità con prescrizioni: il problema del mantenimento nella mansione e della conservazione del posto di lavoro.
Prima di venire a considerare le possibilità di adibizione del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione, dobbiamo richiamare le decisioni costituzionali poste a presidio di alcuni beni fondamentali:
-         il diritto al lavoro: (articolo 4 Costituzione) “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; (articolo 5 Costituzione) “La repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;
-         il diritto ad una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia (articolo 36 Costituzione) “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”;
-         il diritto alla salute, tutelata come bene fondamentale dell’individuo e interesse della comunità (articolo 32 Costituzione) “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Questo per dire che il contratto di lavoro, prima che una fonte di rapporti obbligatori, è, secondo le Sezioni Unite della Cassazione (Cassazione Sezioni unite, sentenza 7755/98), “un programma di comportamento tra le parti”.
Il che definisce nella forma più ampia e più alta lo stesso principio della corrispettività delle prestazioni; senza per ciò incidere sul diritto datoriale a fare impresa e sul sinallagma contrattuale (lo scambio, la reciprocità delle prestazioni).
L’articolo 41 del Dlgs. 81/08, al comma 6, stabilisce che il medico competente, sulla base delle risultanze delle visite mediche per la sorveglianza sanitaria, “esprime uno dei seguenti giudizi relativi alla mansione specifica:
-         idoneità;
-         idoneità parziale, temporanea o permanente, con prescrizioni o limitazioni;
-         inidoneità temporanea;
-         inidoneità permanente”.
Il successivo comma 7 decide che nei casi di inidoneità temporanea vadano specificati i limiti temporali di validità del giudizio.
In realtà sarebbe opportuno intervenire sulla norma, allargando l’obbligo di specifica anche all’idoneità parziale temporanea. Non tanto e non solo perché, secondo logica, ciò accade già nella pratica; quanto, piuttosto, perché la stessa idoneità con prescrizioni comporta il rischio della risoluzione del rapporto di lavoro (come, a differenza che nel passato, ci stanno oggi mostrando le pratiche malsane della crisi; stiamo dunque parlando di licenziamenti, a mio parere, illegittimi e dunque da impugnare).
L’articolo 42, comma 1 del D.Lgs.81/08 “Provvedimenti in caso di inidoneità alla mansione specifica” stabilisce che:
“Il datore di lavoro [...] in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Pare evidente una contraddizione tra la titolazione dell’articolo, che tratta dei provvedimenti nel (solo) caso di giudizio di inidoneità, col suo contenuto, il quale invece tratta dei provvedimenti da attuarsi “in relazione ai giudizi” diversi dall’idoneità piena.
La sostanza però che ci interessa, è che l’articolo 42 assicura perentorietà alle prescrizioni poste dal medico competente; stabilendo nel contempo l’obbligo per il datore di lavoro di darne attuazione (Concordo con Del Nevo che “il significato” fondamentale dei giudizi di idoneità espressi dal medico competente è pertanto quello di “prescrizioni di pericolo” e che il mancato rispetto di tali prescrizioni comporta “prevedibile” pericolo per la salute del lavoratore: va reso evidente che il concetto di prevedibilità rappresenta criterio per l’individuazione della colpa. Concordo dunque che le “idoneità con limitazioni”, non avendo nessuna copertura legale, non hanno alcun valore anche ai sensi dell’articolo 23 della Costituzione).
Se così non fosse, anche la prescrizione più lieve potrebbe venir messa in discussione (con riguardo all’organizzazione aziendale).
Col risultato, mi sembra, di pregiudicare l’intero istituto del giudizio di idoneità. Oltre che stridere immediatamente con l’articolo 3 della legge 604/66 “Norme sui licenziamenti individuali” (in quanto legge speciale sulla materia, che, con l’articolo 3, specifica i contenuti generali dell’articolo 1455 del Codice Civile): “Il licenziamento per giustificato motivo [...] è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro”.
Si tratta certo di non trascurare il contemperamento dei diversi interessi, costantemente richiamato dalla Corte di Cassazione (“interessi protetti a livello costituzionale, i quali devono essere bilanciati in sede di interpretazione della legislazione ordinaria”, vedi Cassazione Sezioni Unite, sentenza citata)
Tuttavia una lettura di senso, oltre che letterale, dell’articolo 42, porta a ritenere che solo qualora le misure indicate dal medico competente, prevedano un’inidoneità alla mansione specifica, il datore di lavoro adibisca, se possibile, il lavoratore ad altra mansione; compatibile con le sue condizioni e con la (necessaria) valutazione del medico competente.
Nel caso invece di un giudizio di idoneità con prescrizioni (temporaneo o permanente che sia), l’articolo 42 non obbliga al cosiddetto tentativo di “ripescaggio”. Ma, tanto più, quindi, non consente la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo.
Il datore di lavoro che intendesse comunque operare questa scelta, si porrebbe in violazione dell’articolo 2087 del Codice Civile (diversamente che per il giudizio di inidoneità; rispetto al quale le Sezioni Unite, nella richiamata sentenza del 1998, hanno deciso che “alla questione relativa al licenziamento [per inidoneità], rimane estraneo l’articolo 2087 [...] che impone all’imprenditore obblighi di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore una volta che a questo siano state assegnate le mansioni”), il quale decide che egli adotti “nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a garantire l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”. Si esporrebbe dunque (anche) all’obbligo risarcitorio in sede di processo civile.
Certamente siamo in presenza di un contrasto con l’articolo 1464 del Codice Civile (impossibilità sopravvenuta parziale): “quando la prestazione di una parte è divenuta solo parzialmente impossibile, l’altra parte... può anche recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale”.
Meno, mi pare, con l’articolo 41 della Costituzione. Il quale certo garantisce la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore (e dunque di organizzazione dell’impresa), ma a condizione che questa non si ponga in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recar danno all’integrità fisica e alla personalità morale del lavoratore. Questa previsione esce rafforzata, se possibile, dal dettato dell’articolo 32 della Costituzione, laddove la tutela della salute quale bene indisponibile rappresenta, in nesso inscindibile, un diritto dell’individuo lavoratore e un interesse della collettività.
Rispetto a tali contrasti, se riconosciuti, deve decidere il legislatore (in genere dopo un consolidamento giurisprudenziale); anche se, a temperamento della “potenza” dell’articolo 1464, si pone l’articolo 1455 del Codice Civile “Importanza dell’inadempimento”: “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo dell’interesse dell’altra”.
Il giudice di merito sarebbe chiamato, nel caso, a valutare anche questo aspetto.
Del tutto differente è la condizione che veda il lavoratore oggetto di giudizio di inidoneità da parte del medico competente.
In questo caso funge da spartiacque la richiamata sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.
Il giudice di legittimità ha in quella circostanza stabilito che la sopravvenuta inidoneità alla mansione specifica non costituisce di per sé stessa un giustificato motivo di licenziamento. Il datore di lavoro dovrà invece, secondo un criterio di correttezza e di buona fede (lo stabiliscono gli articoli 1175 “Comportamento secondo correttezza”, 1366 “Interpretazione in buona fede” e 1375 “Esecuzione in buona fede” del Codice Civile, i quali, rispettivamente, recitano “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”; “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”; “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”), attivarsi per verificare se sia possibile, senza dover stravolgere l’organizzazione aziendale, adibire il lavoratore ad altra mansione, anche inferiore.
Solo quando questo onesto tentativo non dovesse avere successo, il datore di lavoro potrà procedere alla rescissione del contratto. Perché, anzi, a quella decisione sarebbe tenuto proprio in rispetto dell’articolo 2087 del Codice Civile.
E’ chiaro che in eventuale sede giudiziaria di impugnazione, il datore di lavoro dovrà dimostrare di aver correttamente svolto il cosiddetto tentativo di “ripescaggio”.
Il lavoratore, a tal punto, avrà l’onere di dimostrare “specificamente” come in realtà siano presenti (se effettivamente presenti) le condizioni per la sua adibizione a una diversa mansione.
Naturalmente senza che questo debba implicare uno stravolgimento dell’organizzazione aziendale, ad esemepio attraverso la creazione di una mansione ad hoc, oppure lo spostamento di un altro lavoratore, oppure l’adozione di misure organizzative e tecniche per “garantire” comunque la permanenza nella mansione.
Qui bisogna però, a mio avviso, operare la distinzione tra una sopravvenuta inidoneità temporanea ed una permanente.
Nel primo caso il datore di lavoro dovrà procedere pur sempre alla ricerca di una mansione alternativa cui adibire il lavoratore.
Nel caso non risultasse alcuna mansione disponibile, il datore di lavoro potrà procedere alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione (o secondo accordo tra le parti: ferie, permessi, sospensione retribuita); ma non al licenziamento del lavoratore per giustificato motivo.
E’ fatto salvo, infatti, il diritto del lavoratore giudicato (anche) inidoneo temporaneamente di porre ricorso, avverso il giudizio del medico competente, all’organo di vigilanza territorialmente competente (ai sensi dell’articolo 41, comma 9 del D.Lgs.81/08).
Nel caso la commissione medica ex articolo 41 del D.Lgs.81/08 modifichi il giudizio in uno di quelli di idoneità, il lavoratore dovrà immediatamente venire riammesso al lavoro e potrà agire giudizialmente in rivalsa per il recupero delle spettanze durante tutto il periodo di sospensione.
Ciò vale anche in caso di inidoneità permanente. Con la specifica che in nessun caso il datore di lavoro potrà procedere al licenziamento per giustificato motivo, prima che siano trascorsi sia i 30 giorni stabiliti per la facoltà del ricorso, sia - una volta posto il ricorso - il tempo necessario perché l’organo di vigilanza esprima il proprio giudizio, a conferma o modifica di quello espresso dal medico competente. Da rilevare che il giudizio della commissione è sovraordinato rispetto a quello del medico competente. Potrà eventualmente venire sostituito da diverso giudizio in sede di successiva visita:
-         periodica;
-         su richiesta del lavoratore;
-         nel caso di cambio della mansione;
-         al rientro da malattia o infortunio di durata superiore ai 60 giorni continuativi.
E’ dato di esperienza che la stragrande maggioranza degli infortuni e delle malattie professionali siano occorsi con violazione delle norme antinfortunistiche e di igiene del lavoro.
In questo caso il lavoratore può chiedere il risarcimento, per le menomazioni subite, attraverso:
-         l’instaurazione di un processo civile;
-         esercitando l’azione civile nel processo penale.
“Il processo penale è tendenzialmente più celere e vi è la possibilità di ottenere già direttamente in sentenza una somma che il responsabile è obbligato a versare immediatamente (cosiddetta provvisionale)” (M. Del Nevo).
Da qui la nuova incidenza dell’articolo 61 del D.Lgs.81/08 (Esercizio dei diritti della persona offesa) nello stabilire che:
“1. In caso di processo penale per i delitti di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale, il pubblico ministero ne dà immediata notizia all’INAIL ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso;
2. Le organizzazioni sindacali e le associazioni dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro [..o di malattie professionali!] hanno facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa... con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale”.
Nella pratica, ma sto semplificando, l’azione risarcitoria verrà svolta dall’INAIL. Sia per la copertura dell’inabilità temporanea assoluta che per il ristoro del danno cosiddetto biologico (ad eccezione della zona in franchigia, collocata dall’1 al 5% di punteggio d’invalidità).
Il datore di lavoro, nel caso di riconoscimento della responsabilità, dovrà perciò subire l’azione di rivalsa (“in regresso”) dell’INAIL.
Il lavoratore potrà inoltre, in aggiunta, promuovere/intentare l’azione risarcitoria, spesso risolta conciliativamente, rispetto alla cosiddetta “quota differenziale” del danno biologico (in tal caso, anche con riguardo alla quota di inabilità collocata in franchigia).
Quello che però preme porre in evidenza, è il dolente, irrisolto problema dei lavoratori i quali abbiano, - in conseguenza di violazione delle norme poste a tutela di salute e sicurezza sul lavoro, patito una menomazione non totalmente (o gravissimamente) invalidante e tuttavia sufficiente a giustificare la non idoneità alla mansione (altro “punctum dolens”, sul quale, per fortuna, sta intervenendo la giurisprudenza della Cassazione, è rappresentato dall’ipotesi in cui la condizione menomativa, accaduta con violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, porti al superamento del periodo di comporto; il “comporto”, per semplificare, è il periodo massimo stabilito dalla contrattazione collettiva per la conservazione del posto di lavoro).
In questo caso, dice la Costituzione, è la Repubblica (e dunque il legislatore) che deve farsi carico della tutela del bene costituzionalmente protetto (nel caso qui in esame, il lavoro per il lavoratore). Coadiuvata dai giudici di merito e di legittimità. E, si spera, prima o poi, anche dal giudice delle leggi.
Pietro Ferrari
Dipartimento Salute Sicurezza Ambiente Camera del Lavoro di Brescia

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